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Viaggiare, l’emozione di un incontro

“I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo ma ciò chesiamo.” (Fernando Pessoa)

Da troppi mesi ormai, la delicata situazione sanitaria che ci ha visto e ci vede ancora protagonisti di un evento unico nel suo genere, ci ha costretto a ridisegnare i nostri confini fisici, politici e psicologici in spazi limitati facendo venir meno quella che possiamo stabilire come esperienza principe della natura umana: l’arte del viaggiare.
Sarebbe riduttivo circoscrivere questa vitale libertà umana nei limiti insufficienti di una definizione univoca e paritaria in quanto il viaggio è di per sé un’esperienza unica e solidale. Viaggiare accomuna la solitudine degli innumerevoli cuori umani; fa appello a quella comunanza di sogni, gioie, preoccupazioni, aspirazioni, illusioni, speranze, paure che legano un essere umano ad un altro essere umano, che unisce l’umanità tutta: “l’incontro con l’altro”. Ryszard Kapuściński, uno dei più grandi reporter di viaggio del nostro tempo e profondo conoscitore dell’alterità umana, definiva appunto questo incontro come “la sfida del XXI secolo” e, per mostrare come poterlo agire attivamente, metteva in evidenza tre dei comportamenti che le persone nel corso della storia hanno agito quando hanno avuto la possibilità di incontrarsi: la guerra, l’isolamento dietro un muro ed infine l’apertura al dialogo. Ebbene, viaggiare significa dialogare con il mondo, con le sue espressioni, con le sue differenze e le sue uguaglianze, ci dona un’esperienza di crescita unica. In questo tempo così statico come quello presente, dobbiamo mantenere vivo questo dialogo per conoscere e per conoscerci, per amare ed amarci, per liberare e liberarci di quei vincoli espressivi che lo stare fermi ci impone e costruirlo dentro noi stessi per realizzarlo quando torneremo a viaggiare.
L’importanza del viaggiare si manifesta nella sua capacità di trasformare la personalità e agire come forza capace di orientare il nostro punto di vista verso nuove prospettive e nuovi orizzonti di senso e di spazio. Le emozioni che possiamo esperire durante il viaggio sono tante: da un punto di vista psicologico la partenza è sempre una separazione, il distacco da un contesto che ci definisce; il transito al contrario è un’esperienza qualitativamente diversa perché di movimento attraverso confini e spazi. Nel transito il movimento diventa appunto il mezzo di percezione; l’arrivo invece è sempre un’esperienza di identificazione con il luogo. Come scrive Eric J.Leed nel libro “La Mente del Viaggiatore” le partenze evocano le prime separazioni dell’infanzia, il transito le prime esperienze di fuga e libertà fisica, gli arrivi la magia di un ritorno agli inizi e il raggiungimento della coesione con gli altri. Per cui come osservava Basho, il grande viaggiatore giapponese del Seicento, pioniere dell’haiku, uno dei piaceri del viaggio è trovare un genio tra le erbacce e i cespugli, un tesoro smarrito tra piastrelle rotte.

La Lonely Planet, in uno dei suoi ultimi report “BEST IN TRAVEL 2021″, ha premiato alcune destinazioni del mondo prendendo come riferimento dei concetti chiave quali quelli di comunità, diversità, sostenibilità, inclusività, accessibilità, accoglienza e cultura; la vastità delle esperienze che il viaggiare ci offre ne mette alla luce i benefici e ci fa sperare che molto presto potremmo tornare a goderne in tutte le sue accezioni riconoscendone il valore universale che esso rappresenta, in quanto ci consente di elevarci alla condizione di uomini liberi, così come facevano nel medioevo i cavalieri alla ricerca dell’inatteso, del nuovo, del diverso. Viaggiare ha da sempre influenzato gli individui, plasmando i gruppi sociali, modificando le strutture di significato che noi oggi chiamiamo cultura; e così, Il filosofo errante dell’antichità divenne il viaggiatore umanista del rinascimento e poi il viaggiatore scienziato del diciassettesimo e diciottesimo secolo e così via.

“La presenza fisica dei colori ci colpisce nella maniera in cui la luce esalta le tinte a seconda dell’ora del giorno” – Valle dei Re, Egitto ©Nicola Vinciguerra

“Ciò che più ci manca dei viaggi sono i ricordi “; è ciò che emerso da un recente rapporto pubblicato su di un articolo dalla rivista online “Si Viaggia”; Più del 70 % degli Italiani è convinto che quando potrà tornare a viaggiare apprezzerà ancor di più il viaggio e i ricordi che ne derivano in quanto alcuni dei più belli di essi sono legati ad un viaggio appunto, ma non solo; ciò che manca è anche la possibilità di vivere nuove esperienze, lasciarsi alle spalle la quotidianità, imparare cose nuove. Insomma, viaggiare ci fa stare bene, rinnova la memoria dei nostri cuori bisognosi di sguardi che sanno apprezzare le meraviglie del nostro mondo e che desiderano conoscerne di nuove.

“Chi viaggia ha scelto come mestiere quello del vento” (Fabrizio Caramagna)

“Preparo la valigia con la precisione di un sarto, so esattamente di cosa avrò bisogno, assaporo le luci che illumineranno i volti degli uomini e delle donne che incontrerò,
non saranno mai simili gli uni agli altri, ogni segno mi condurrà verso quello che il mio cuore cerca;
viaggiare è questo, riconoscermi negli altri, rispecchiarmi nei loro sogni, abitare nelle loro quotidianità, scoprire le loro tradizioni, il loro stare insieme, conoscere la loro cultura, guardare i loro paesaggi, vivere nelle loro emozioni e ricambiarle per cambiare e per vivere;
la Vita è fatta di viaggi ed ogni viaggio mi rende un uomo più vero.”

Nicola Vinciguerra
Dott.re in Scienze Turistiche Educatore professionale
Fotografo

LEGGERE PER RITROVARE-04

Leggere per ritrovare il senso della propria vita

“Cosa accade quando leggiamo? Per leggere bisogna ovviamente conoscere la lingua nella quale il
libro è scritto. Ma qual’ è stata la nostra prima lingua? La prima lingua non è la lingua nazionale, quella stabilita dal codice del linguaggio, ma una lingua che ha preceduto tutte le lingue e che viene prima di ogni possibile sua storia collettiva. Questa prima lingua precede l’ordine simbolico, condiviso universalmente, del linguaggio.

È fatta di suoni confusi, di affetti, di stati emotivi, di lettere disgiunte, di impasti di fonemi e spasmi del corpo; è una lingua che ha un corpo” (Massimo Recalcati, dall’art. “Che cosa succede al nostro Io quando leggiamo”)

Lo psicoanalista Massimo Recalcati in questo breve articolo ci introduce alla comprensione del significato
più autentico della pratica globale della lettura; innanzitutto ci dice che si tratta di una esperienza che implica concentrazione, solitudine, pazienza del tempo e soprattutto la capacità di approcciarsi al silenzio ad ascoltare per apprendere qualcosa di noi che ancora non conosciamo. Questo perché secondo il noto analista in fondo “tutti noi siamo un libro che attende di essere letto”, leggere significa incontrare appunto pezzi della nostra vita. Egli utilizza delle metafore per farci comprendere il senso di tutto questo definendo un libro come un “coltello”, un “corpo”, un “mare”; ma cosa significa tutto questo? Cosa c’entra la lingua con la pratica della lettura?
Un libro può sicuramente metterci di fronte a delle pagine della nostra vita perché da quando siamo nati
portiamo su di noi stampate le parole dei nostri genitori, dei nostri avi, le parole degli altri. In qualche modo il libro ci risponde rivelandoci delle cose che inconsciamente già sapevamo. I libri sono scritti nel linguaggio del codice nazionale eppure la brace silente che li alimenta resta nascosta tra le pieghe ed in questo senso noi possiamo fare esperienza di sentirci letti attraverso la lettura.
Quale esperienza d’incontro si nasconde dietro la lettura?
Uno dei primi libri che ho letto nella mia vita si intitola “L’ombra del vento”, un romanzo del 2001 di
Carlos Ruiz Zafòn ambientato alla fine della seconda guerra mondiale in un Barcellona colpita dalla guerra
e dal franchismo; narra la storia del giovane Daniel che, dopo aver perso la madre, di cui non ricorda più il
volto a causa del colera alla fine della guerra, viene portato dal padre nel cimitero dei libri dimenticati, una gigantesca biblioteca nella quale vengono conservati migliaia di volumi sottratti all’oblio. Qui lo invita a sceglierne e adottarne uno e a promettere di averne cura per tutta la vita; la scelta ricade sull’ombra del
vento dello sconosciuto Julian Carax, una scelta che lo accompagnerà per dieci anni lungo un percorso di
crescita, mettendo in evidenza tutta una serie di eventi simili a quelli dell’autore, fino all’indicibile segreto,
fino a quando diventa un uomo.
Ebbene, questa storia può essere utile per aiutarci a comprendere come la lettura riesca ad aprire i cassetti delle nostre memorie più antiche, l’incontro con pezzi dimenticati lasciati lì nel fondo per farli riemergere come un filo che ritrova le mani che lo avevano lasciato; da qualche parte, questo filo invisibile recupera la tensione e ci conduce alla scoperta di quello che siamo. L’etimologia del verbo leggere è da ricondursi al latino “legere”, con il significato di raccogliere; leggere significa fondamentalmente raccogliere con mani tese e maglie strette i sensi sepolti in fondo al mare, al nostro mare, lì dove ritroviamo il profumo della nostra storia, la voce del nostro cuore, l’ascolto delle parole più dolci, il gusto del piacere più sano, il calore di un abbraccio sincero.

La lettura ci aiuta a ritrovare il senso della nostra vita perché ci offre la possibilità di scoprire qualcosa di noi che prima non conoscevamo; con coraggio possiamo aprirci ad essa in posizione di ascolto e farci trovare pronti nel ricevere qualcosa di nuovo ed inaspettato. La lettura, quando è autentica, è un’esperienza priva di aspettative, ci spinge a guardarci dentro come farebbe un bel quadro, una vecchia fotografia, il suono di una musica; un libro non ci offre mai soluzioni né tantomeno l’approccio ad esso può essere di scambio, io ti leggo e tu mi dai qualcosa in cambio ma, quello che può fare, è rimetterci in contatto con la nostra storia attraverso le storie degli altri. Emozioni, sentimenti, sogni, desideri tutto ciò che nutre il nostro spirito e la nostra anima. L’approccio ad essa è dunque la chiave di accesso al mistero che nasconde. Ennio Flaiano (scrittore, sceneggiatore, giornalista Pescarese che collaborò a lungo con Federico Fellini) diceva che per leggere un libro esistono tre differenti modalità; il modo più diffuso è la disattenzione, si legge come si fuma, per tenere le mani occupate e gli occhi, per noia, per orrore del vuoto e di se stessi; si può anche leggere un libro per sospetto e invidia, nel qual caso il libro è troppo attraente e si pensa che avremmo potuto scriverlo anche noi; il terzo modo di leggere un libro, il più semplice appartiene e si acquisisce con l’età oppure è un dono che si scopre in se stessi da ragazzi. Si tratta di non abbandonare mai “quel” libro, di lasciarlo e di riprenderlo, di “Andarci a letto”; quello che conta insomma è di abitarli i libri e non di leggerli, di sentirseli addosso.
Sappiamo così poco di noi stessi che spesso ci accontentiamo di quello che già conosciamo: attraverso la lettura ogni pezzo del puzzle della nostra vita ritrova un legame comune che ci restituisce senso. A qualsiasi dimensione, dalle favole all’epica, dai romanzi ai grandi classici, ogni libro è un’opportunità per conoscere se stessi, tirare fuori quei tesori che possediamo perché hanno bisogno di brillare per poter essere riconosciuti.
Perché un libro dunque?
⦁ FUNZIONA SUBITO (NO BATTERIE, NO MONTEGGIO)
⦁ NON SBAGLI MAI LA TAGLIA
⦁ È SEMPRE DI MODA
⦁ CE N’É PER TUTTI I GUSTI
⦁ È FACILE DA INCARTARE
⦁ CI RENDE MIGLIORI
⦁ È PANE PER TESTA E OCCHI
⦁ LO USI E LO RIUSI OVUNQUE
⦁ DURA PER SEMPRE
⦁ PERCHÉ NO?

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LE EMOZIONI NELLA FOTOGRAFIA

“Fotografare è riconoscere nello stesso istante e in una frazione di secondo un evento e il rigoroso assetto delle forme percepite con lo sguardo che esprimono e significano tale evento. È porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere.“

Così Henri Cartier Bresson, padre del fotogiornalismo moderno, definisce la fotografia. La “scrittura con la luce”, così come letteralmente viene tradotta, è un’arte recentissima se consideriamo il fatto che la prima fotografia della storia risale al 1826 ad opera del Francese Joseph Nicèphore Nièpce che, utilizzando una sostanza chiamata bitume di Giudea riuscì, attraverso una lunga esposizione alla luce di ben otto ore, ad imprimere la prima immagine fotografica della storia. Questo importante momento della nostra storia moderna segna lo spartiacque fondamentale per delineare i confini di ciò che oggi consideriamo come memoria; fino ad allora solo alla pittura era dato il privilegio di dare forma alle immagini del mondo nella ristretta cerchia di coloro che potevano permettersi tale arte. Con l’avvento della fotografia e del suo affermarsi nel secolo anche alle persone meno abbienti fu data la possibilità di materializzare la propria storia sotto forma di ritratto. La fotografia ci permette di considerare come ciò che guardiamo e quello che sentiamo in ogni istante della nostra vita abbiano un valore simbolico; se potessimo fotografare ogni singolo momento del nostro quotidiano vivere saremmo in grado di raccontarci quello che il più delle volte dimentichiamo negli anfratti della memoria. In effetti, la fotografia ha la grande capacità di ritornare a riprendere le emozioni che si sono impresse nel tempo e nello spazio di un determinato momento e di restituircele sotto forma appunto di memoria. In un certo senso la fotografia dona senso ai nostri vissuti interiori in quanto la luce descrive le forme del nostro essere e ci permette di rappropriarci delle nostre emozioni. Ma di quali emozioni sto parlando?

“Quando guardo una fotografia non guardo solo l’immagine che ho davanti ma guardo l’emozione che
quell’immagine mi trasmette, è un ponte verso me stesso attraverso il quale riconoscermi”

SPERANZE ©Nicola Vinciguerra

Le fotografie sono gocce di memoria che non tramontano mai perché sono sempre lì con me, a ricordarmi quanto amore ho ricevuto nel corso della mia vita; nei gesti, negli affetti, nei profumi, nei legami che in ogni singolo istante hanno dato forma al mio sentire; una fotografia non scompare, semplicemente resta. La fotografia mi insegna a non dimenticare, a restituire, a dare senso alla storia, alla mia e a quella degli altri. É una forma di gratitudine nei confronti della vita per il dono immenso che mi ha fatto, quello di essere venuto al mondo ed è per questo che la conservo nel mio cuore per restituirla nei momenti di difficoltà che mi trovo ad affrontare, quei momenti in cui le emozioni, attraverso la loro forza, riescono a dare forma e sostanza al mio essere e a trasformarmi ancora una volta per creare qualcosa di nuovo; un modus operandi che può essere utilizzato nelle relazioni d’aiuto stimolando tutti coloro che non riescono a vederle queste emozioni per riportarle a galla e riappropriarsene. Tutti noi siamo un universo emotivo ricco di così tante sfumature che in qualsiasi momento possiamo tirare fuori dai nostri cassetti della memoria frammenti di vita che ci appartengono, immagini appunto, rimetterle insieme e dare senso al nostro divenire sottoforma di amore verso noi stessi.

Cerco di mettere in risalto il processo emozionale della fotografia tralasciando quello fotografico di per sé; per questa ragione nell’ immaginario quello che ci deve fare pensare a come le emozioni si siano scolpite nelle fotografie, riguarda soprattutto quelle in cui abbiamo vissuto in prima persona dette emozioni; la fotografia riesce, anche se distante dal mio quotidiano, di per sé a dare senso e contenuto a quello che accade lontano dai miei occhi, ma quello che accade attraverso i miei occhi ha una valenza emozionale che si farà spazio ogni qual volta avrò bisogno di ricordare. La fotografia e le emozioni che si legano ad essa nascono dal silenzio ed è per questo che la loro forza è primigenia, innegabile, scolpita nel tempo. La fotografia ha un suono, un profumo, un pensiero, è vitale perché mi mette in relazione e mi rende visibile a me stesso.
Le emozioni non hanno bisogno di parole questo è vero, ma hanno bisogno di contenuti che riescano a dargli forma; la fotografia grazie alla sua materialità riesce ad accogliere con amore quello che ogni immagine nasconde dietro la sua apparenza per ridisegnare il mio universo emozionale e renderlo visibile non solo a me stesso come ho già accennato in precedenza, ma anche agli altri che troveranno in me ed in noi uno specchio attraverso il quale riorientare i confini del proprio mondo emozionale.
“La fotografia a volte fa paura, guardarla fino in fondo smuove tutte le emozioni ancorate ad essa, ma quando queste vengono riconosciute e liberate il mio sguardo si trasforma, conquista nuovi spazi dove far entrare ancora un angolo di mondo che merita di essere visto perché la fotografia in fondo non è qualcosa che mi appartiene ma è qualcosa che mi nutre”

A cura di Nicola Vinciguerra

Dott. in Scienze Turistiche
Educatore professionale
Fotografo

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Giornata Internazionale della solidarietà umana

APRIMI FRATELLO

Ho bussato alla tua
porta ho bussato al
tuo cuore per avere
un letto
per avere del fuoco
perché mai
respingermi ?
Aprimi fratello !
Perché
domandarmi se
sono dell’Africa
se sono
dell’America se
sono dell’Asia
se sono dell’Europa
? Aprimi fratello !
Perché domandarmi
quant’è lungo il mio
naso quant’è spessa la
mia bocca di che
colore ho la pelle
che nome hanno i
miei dei ? Aprimi
fratello !

@Nicola Vinciguerra, Fratelli, Azzorre

Io non sono
nero io non
sono rosso io
non sono
giallo io non
sono bianco
non sono altro che un
uomo. Aprimi fratello !
Aprimi la porta
aprimi il tuo cuore
perché sono un
uomo l’uomo di
tutti i tempi l’uomo
di tutti i cieli
l’uomo che ti
somiglia !
di RENE PHILOMBE

La Giornata internazionale della solidarietà umana è stata istituita dall’ONU il 31 agosto del
2005 con l’intento di sensibilizzare le persone nei confronti di chi vive una vita disagiata e
difficoltosa, in nome di uno slancio di generosità, di collaborazione e di sostegno verso il prossimo,
con l’obbiettivo di celebrare la nostra unità nella diversità e per accrescere la consapevolezza

pubblica dell’importanza della solidarietà.
«La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali
ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica,

economica e sociale» (costituzione della Repubblica Italiana, art.2)

Il principio di solidarietà è ben espresso anche nella nostra Costituzione ed il senso e l’etimo
della parola ci rimandano ad una relazione di fratellanza e di assistenza reciproca. La solidarietà è
sostegno reciproco nel modo in cui ogni parte di un solido sostiene l’altra per il fine di un bene
comune e dunque la coesione rende possibile qualsiasi gesto solidale. Giacomo Leopardi ne “La
Ginestra” (arbusto simbolo di flessibilità e resistenza) affermava che l’unica salvezza per gli uomini
fosse la solidarietà, la « social catena» che permette agli uomini di reagire alle ingiustizie della
natura.
«La solidarietà è nemica dell’indifferenza»
La solidarietà è nemica dell’indifferenza perché è dono incondizionato agito volontariamente, cioè
con la volontà di fare del bene; si manifesta verso i poveri, gli anziani, i malati, i diversamente abili
ma per prima cosa si manifesta verso noi stessi, arricchisce il nostro spirito e lo rende vulnerabile
all’amore e all’accoglienza. Viviamo in una società in cui “forse” prevale l’affermazione
individuale e andare incontro e non in soccorso all’altro senza nessun tipo di tornaconto personale
rappresenterebbe per qualcuno un gesto rivoluzionario ma non è così; la solidarietà è parte della
natura altruistica dell’uomo da sempre ed oggi ancora di più. Siamo circondati da gesti solidali ogni
giorno e non è necessaria la storia lontana per far riemergere ricordi di essa. Prendiamo ad esempio
quello che nello scorso mese di novembre è accaduto nella nostra amata ed inimitabile Venezia
quando un gruppo di volontari, chiamati “gli angeli dell’acqua alta”, dopo la marea record della
notte tra il 12 ed il 13, hanno raccolto quasi 2 tonnellate di rifiuti accumulati. Ma non solo. Se
guardiamo alle storie delle persone comuni troviamo tracce ovunque nel mondo di solidarietà,
come quella del piccolo Zejd, bimbo Bosniaco di sei anni non udente dalla nascita che alcuni anni
fa, in una piccola scuola di provincia, ha sperimentato la solidarietà e la stima di tutti i suoi
compagni di classe e della sua insegnante che per aiutarlo e poter comunicare con lui, hanno
imparato la lingua dei segni. O ancora la storia di Adriana, nonna di Lanciano bravissima a
lavorare l’uncinetto che ad inizio mese, in ricordo della nascita del suo nipotino di quattro anni, ha
deciso di donare al reparto della Terapia intensiva neonatale di Chieti scarpine in lana a tutti i
bimbi nati prematuramente. La solidarietà non è così lontana come magari a volte pensiamo, è
molto più vicina di quanto immaginiamo, per questo dobbiamo riconoscerla nei gesti che ci
circondano ogni giorno, sia in quelli lontani che in quelli più vicini come in quello delle donne
Indiane che creano maglioni agli elefanti per il freddo anomalo dei mesi invernali o nel gesto nel
tenero Stuart, tredicenne Gallese che ha salvato oltre 100 pesci trasportandoli uno ad uno da un
fiume reso arido dalla siccità in zone più ricche di acque.
La solidarietà, soprattutto quella verso le persone, per esistere ed essere produttiva ha bisogno di
reciprocità come in qualsiasi forma di relazione. Necessario è l’incontro tra la capacità del dono e
la capacità del riceverlo un dono, il desiderio cioè di rendersi vulnerabili in un determinato
momento della nostra vita al sostegno dell’altro; la capacità ricettiva e l’accettazione dell’aiuto
dell’altro dunque rendono il gesto volontario solidale. In questa condizione dell’animo anche un
piccolo gesto può contribuire a cambiare le cose come la soddisfazione di regalare un semplice
sorriso a chi è disposto ad accettarlo.
La data del 20 dicembre coincide con la creazione del Fondo di solidarietà mondiale, avvenuta nel 2002.

L’obbiettivo del fondo è quello di eliminare la povertà e promuovere lo sviluppo umano e
sociale nei paesi in via di sviluppo, in particolare tra le fasce più povere della popolazione.
Indubbiamente ci sono contesti nel mondo dove la necessità di intervento è prioritaria rispetto ad
altre zone ma, io credo fortemente che la prima espressione della solidarietà debba ritrovarsi nella
famiglia; non è necessario partire in terre lontane per agire solidarietà, quando spesso non ci
accorgiamo del “fratello” che abbiamo accanto e niente come il Natale prossimo all’arrivo può
ricordarcelo. La natura solidale dell’uomo si manifesta in primis verso chi ci è più prossimo
appunto, nei piccoli gesti quotidiani del nostro vivere perché per andare lontano prima dobbiamo
imparare a stare vicino.

«Insieme possiamo fare qualcosa»

A cura di Nicola Vinciguerra

Dott. in Scienze Turistiche
Educatore professionale – Fotografo

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Un giorno…

Un giorno come tanti ti svegli, ti alzi, prepari la colazione, chiami i tuoi figli e all’improvviso invece della tua bella bimba affettuosa e sorridente si presenta una ragazzina che con aria spazientita ti dice che non ha fame e che deve scappare perché le amiche l’aspettano davanti la scuola. La guardi incredula, provando a fare accenno all’importanza del pasto mattutino ma lei, indolente e scocciata, ribatte che è tardi e va via.
Non è un incubo. E’ iniziata la preadolescenza di tua figlia.
La preadolescenza è quel periodo compreso tra i 10 ed i 14 anni durante il quale i figli non sono più bambini e non sono ancora adulti: sono in divenire, sospesi tra l’infanzia e l’adolescenza. La psicoterapeuta Sofia Bignamini li definisce “mutanti” paragonandoli a dei serpenti che cambiano pelle, proprio perché la mutevolezza è la loro caratteristica predominante dal punto di vista fisico, psicologico e relazionale.
Tale susseguirsi repentino di cambiamenti spiega il perché il rapporto tra un figlio preadolescente ed i genitori entri in crisi e necessiti di una profonda trasformazione. I figli, all’interno di un corpo che cambia velocemente, non riescono a controllare e gestire i molteplici stimoli provenienti dall’esterno: la scuola, gli amici, i genitori. Sono fragili e incapaci di esprimere verbalmente le emozioni che provano, perciò ricorrono ad un atteggiamento ribelle o si isolano. Ogni piccola cosa, ogni particolare diventa per il preadolescente un assoluto e compito del genitore è quello di aiutarlo a ridimensionare il tutto, fornirgli la giusta prospettiva, senza però sminuirne il pensiero o il desiderio di fare nuove esperienze.
Innanzitutto bisogna partire dal dialogo, da una comunicazione efficace che consenta al genitore di mettersi realmente in contatto col figlio. Rachel Andrews, psicoterapeuta e membro della British Psychological Society, suggerisce di ricorrere all’ascolto trasversale cioè di dedicare ogni giorno 10 minuti del proprio tempo per svolgere un’attività con i figli durante la quale parlare liberamente. E’ fondamentale lasciare spazio ai ragazzi affinché possano parlare e confidarsi e soprattutto possano decidere da soli in merito alle situazioni che li preoccupano, sapendo di poter contare sul nostro appoggio. E’ necessario quindi trasmettere loro calma e sicurezza qualunque sia l’argomento trattato per non attivarli emotivamente e non infondere loro sensi di colpa e preoccupazione attraverso giudizi o avvertimenti.
Ciò significa rinunciare ad esercitare il potere del ricatto e del senso di colpa, evitare di far pesare ai figli il tempo e le energie che quotidianamente dedichiamo loro, perché sono un dono e non una costrizione. Significa anche ascoltare i silenzi dei nostri figli e cercare di comprenderli, di capire quando hanno bisogno di condividere, di parlare, di stare da soli, quando non si sentono all’altezza o si sentono in dovere di fare qualcosa… significa accettare il silenzio, inteso come luogo di attesa dei tempi altrui, come spazio da attraversare per vivere e superare le proprie paure di genitori.
Perché i cambiamenti di un figlio fanno paura e spostarsi dal proprio punto di osservazione per scorgere l’orizzonte di nostro figlio non è semplice. Spesso l’ansia o la paura di non essere accettati come genitori ci inducono a rinunciare al nostro ruolo per mostrarci solo come amici. In realtà nostro compito è segnare dei confini e dare delle regole che orientino nostro figlio ad esplorare le proprie potenzialità e a definire i suoi limiti. Dobbiamo rinunciare alle nostre aspettative su di loro, sottolinearne le conquiste per accrescere la fiducia in sé, far sentire loro che siamo presenti sempre…anche con i nostri limiti.
Non è infatti mostrandoci onnipotenti che aiuteremo nostro figlio a crescere, ma avendo il coraggio di affrontare i dubbi e le incertezze che ogni giorno ci si presentano, non propinando loro il nostro modello di figlio ideale ma accettandoli come persone, come “altro da noi”.
Solo un genitore fallibile e vulnerabile può insegnare ad un figlio che è possibile commettere degli errori senza provare un infinito senso di colpa ma rimediando e chiedendo scusa.
Un giorno come tanti ti svegli, ti alzi, prepari la colazione, chiami i tuoi figli, li guardi…è ora di lasciarli andare.

A cura di Elisabetta De Iuliis
Dott. In Scienze della Formazione Primaria
Insegnante di sostegno

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UN DONO PER IL FUTURO

“…liberi come il vento per andare verso altri cuori, verso altre vite, un passaporto verso altri sentimenti senza data di scadenza verso altri amori, un passaporto…libero come il vento” (Pasaporte H. D. P.)

Eccoci figlio mio,
Insieme nella vita, la tua vita. Voglio farti un dono oggi, voglio donarti una valigia, ma che sia vuota e pronta per essere riempita. Quello che metterai dentro lo sceglierai tu, lo spazio se tu vuoi potrà essere infinito per custodire i tuoi desideri, i tuoi sogni, il tuo modo di essere.
Spero che in questo ti porterai una piccola parte di me e di tuo padre, e spero che questo frammento possa esserti vicino e possa accompagnarti nella “Danza” della tua vita.
Da quando sei al mondo la mia vita è cambiata, mi hai regalato il privilegio e l’onore di essere madre. Il mio pensiero spesso è quello di aiutarti, ma infondo sei tu che spesso hai aiutato me. Tante volte di fronte al dolore, alla sofferenza, alla paura mi spingo in avanti, faccio grandi salti perché voglio crescere e proteggerti dai miei errori.
Oggi vorrei donarti il valore della libertà…sii libero figlio mio, vola alto, trova il tuo modo di amare la vita e realizzarla per come l’hai sempre sognata. Non esistono condizionamenti alla libertà e chiunque cerchi di farti credere il contrario tu non lo ascoltare, guarda avanti piangi, ridi, corri, cadi, alzati, balla, suona, ama, tutto come sai fare. Niente è più prezioso della tua felicità, niente è più prezioso della tua vita e del tuo “sentire”.
Io spero che mi perdonerai per gli errori che farò e spero di riuscire a farti sentire libero di esprimere sempre i tuoi pensieri senza paura, a comunicare le tue verità e le nostre verità.
Mi impegnerò a lasciare sempre aperta la porta del dialogo con te…ti sarò vicina ma non troppo per lasciare spazio, lo spazio per le tue emozioni, lo spazio per il tuo “fare da solo”.
“Colora la mente in ogni sua parte figlio mio e ricorda che il buio non ha alcun potere se la luce risplende” (cit)
E. M.

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Superare la paura del diverso per riscoprire il valore dell’essere unici

“Sentiamo che anche tu ci vuoi bene…ed è bene tu sappia che con te abbiamo imparato qualcosa che ci riempie di orgoglio: abbiamo imparato ad apprezzare, a rispettare e ad amare un essere diverso. È molto facile accettare e amare chi è uguale a noi, ma con qualcuno che è diverso è molto difficile, e tu ci hai aiutato a farlo. Sei una gabbiana e devi seguire il tuo destino di gabbiana. Devi volare. Quando ci riuscirai, Fortunata, ti assicuro che sarai felice, e allora i tuoi sentimenti verso di noi e i nostri verso di te saranno più intensi e più belli, perché sarà l’affetto tra esseri completamente diversi.”
(dal libro “Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare” di Luis Sepúlveda)

Quale significato ha la parola “diverso”?
“Che si presenta con un’identità, una natura nettamente distinta rispetto ad altre persone o cose…”.
Quando parliamo di diversità andiamo ad accostarci inevitabilmente al mondo dell’alterità, l’altro da noi, quello differente, a volte sconosciuto…che spesso ci fa paura.
Secondo John Bowlby, psicologo ed ideatore della teoria dell’attaccamento, il bambino intorno agli 8 mesi di vita attraversa una fase in cui sperimenta l’emozione della paura verso le persone estranee. Si tratta di una reazione innata con un preciso significato evolutivo: l’estraneità della persona viene assimilata come segnale di pericolo e allo stesso tempo l’attaccamento nei confronti della madre si rafforza, una fase di sviluppo indispensabile alla sopravvivenza della specie.
La storia ce lo ha già insegnato, ma se ci guardiamo intorno la lezione non è stata ancora imparata: chi è diverso spesso viene letto come strano, estraneo, pericoloso, utilizzato come oggetto di scherno, capro espiatorio su cui gettare il negativo…
Quindi è necessaria una riflessione: la paura dell’estraneo nel bambino di 8 mesi è adattiva, fa parte dello sviluppo. Quando invece questa paura dell’estraneo, del diverso diventa disfunzionale?
La cronaca e la vita di tutti i giorni ci portano a vedere innumerevoli forme di bullismo, chiusura, indifferenza, allontanamento e violenza verso il diverso a causa di differenti origini o tratti somatici, di sesso e genere…verso chi è disabile o anche verso chi ha particolari talenti.
Certo…chi è diverso da me stesso e da chi mi è simile e conosciuto può fare paura, così come tutto ciò che è sconosciuto ed incerto. Ma se questa paura non viene elaborata, attraversata e superata ed in aggiunta si agisce in modo reattivo secondo progetti di odio ed aggressività, dov’è che si arriverà?
A chi nella vita non è mai capitato di sentirsi diverso…anche da se stesso?! Guardandosi magari allo specchio o guardandosi indietro rispetto ad una situazione e pensare “ho agito diversamente rispetto a qualche anno fa”. La diversità fa parte della natura umana, così come la paura della stessa, ma è importante comprendere fino a che punto sia funzionale.
Si evidenzia sempre di più il bisogno di un’educazione alla diversità che promuova soprattutto, sin dall’infanzia, l’empatia e l’accettazione. L’empatia ci permette di entrare in sintonia con i sentimenti dell’altro, a superare la paura, ma questo risulta difficile se non si è abituati ad entrare in contatto con le proprie emozioni, a riconoscerle e a gestirle.
E’ fondamentale aprire l’orizzonte dei bambini e dei ragazzi: la diversità in realtà è un valore aggiunto, è ciò che ci rende UNICI. Solo attraverso la conoscenza e la comprensione dell’altro possiamo compiere quel passo avanti che abbatte quel muro che non solo chiude fuori l’altro, ma soprattutto traccia un confine che ci chiude all’interno rendendoci ciechi persino a noi stessi.
E’ importante esprimere appieno la nostra unicità ed individualità abbattendo i canoni dell’uniformità. Accettare che i veri scambi interpersonali avvengono proprio grazie all’incontro di due diversi, di due alterità che decidono di guardarsi negli occhi senza paura e di prendersi per mano, nella piena bellezza di ciò che diversamente sono.
A cura di dott.ssa Sara Lippo Psicologa Specializzanda in Psicoterapia

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Sentirsi vittima di se stessi

Quando veniamo giudicati, spesso, non rintracciamo in quel giudizio la descrizione della nostra persona, di ciò che siamo e pensiamo di essere. A volte questo ci ferisce e può trattenerci in una situazione di disagio.
Perché succede

Innanzitutto va specificato che chi ci giudica, molto spesso, non sta facendo altro che giudicare se stesso, e lo fa attraverso la nostra persona, come riflesso di ciò che in realtà sta provando nell’ hic et nunc. Ciò che proietta su di noi, altro non è che ciò che sente di se il nostro interlocutore, in quel momento non si rende conto del meccanismo che mette in atto, vede in noi ciò che non gli piace di lui, ciò da cui vuole allontanarsi, che è più facile vedere negli altri che non in se stessi.
La paura del giudizio altrui, condiziona la vita di molte persone, soprattutto di chi decide di farsi influenzare nelle scelte, anche quotidiane, perché non riesce a prendere e mantenere una posizione.
Il giudizio degli altri quindi rischia di diventare una vera e propria ossessione.
Per questo non riusciamo a chiederci: “e se stessi sbagliando qualcosa?”, come interrogativo del fatto che stiamo sbagliando ad ossessionarci e ad ostinarci a causa del giudizio altrui, che diventa come un macigno sulle nostre spalle.
Il bisogno di essere accettati può portare alla non realizzazione dei propri desideri, perché si ha sempre paura di fare una scelta, di assumere una posizione.
La paura ci porta dunque a procrastinare le scelte importanti della nostra vita.
Ossessione così radicata da tramutarsi in ostinazione; ostinazione a perseguire una strada che non è quella che avremmo scelto. Ostinazione a non prendere decisioni, a restare fermi con il conseguente ed effimero passaggio del riversare la responsabilità della nostra vita sulle scelte che gli altri hanno agito su di noi.
L’altra faccia della medaglia della paura del giudizio altrui e della paura di non prendere decisioni per conto proprio, diventa quindi l’autocommiserazione.
Viviamo impantanati nell’autocommiserazione quando non siamo più in contatto con noi stessi e con i nostri desideri. Quando non siamo più in posizione eretta sulla nostra colonna vertebrale e scivoliamo in parti regressive perdendo di vista il nostro progetto nell’adultità. Ci sentiamo come marinai in mezzo ad una tempesta in alto mare.
Per quanto potremmo sforzarci sarà impossibile piacere a tutti. Se abbiamo paura che gli altri ci giudichino, forse è perché abbiamo standard troppo elevati, in verità non reali, della nostra persona.
Se compiendo una capriola, ci spostassimo da questa traiettoria, arriveremmo alla conclusione che in verità non è il giudizio altrui a farci paura ma è il nostro giudizio.
Scopriamo quindi che il giudizio non è una parte di noi, non fa più parte del nostro bagaglio, ma è stata una decisione consapevole che abbiamo agito per sentirci vittime.
Liberarsi dalla paura del giudizio, dall’ostinazione e dall’autocommiserazione significa dunque liberarsi dall’indossare una maschera e quindi diventare autentici.
Dobbiamo smascherarci, smetterla di interpretare un ruolo ed iniziare ad accettare noi stessi nella complessità di ciò che siamo.
“Tra vent’anni non sarete delusi delle cose che avete fatto ma da quelle che non avete fatto. Allora levate l’ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate. Scoprite.”
Mark Twain
A cura di Dott.ssa Gaia Bosco Psicologa e Psicoterapeuta

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Riflessioni fiduciose

“La fiducia è una cosa rara: quando qualcuno la ripone in te
crea un ponte dal suo cuore al tuo cuore.
Abbi cura di quel cuore”.
(G. Stella)

Parlare e scrivere di fiducia non è così semplice, essa è il trait d’union della relazione interpersonale e, ad un livello successivo, dei rapporti della comunità.
Come esprimono molto bene i versi di Stella citati, la fiducia crea un ponte tra due cuori. Chiunque abbia sperimentato questo atteggiamento saprà riconoscere nella creazione di un legame, la sensazione stessa del dare fiducia.
La fiducia è un atteggiamento, un modo di relazionarsi agli altri e al mondo, una predisposizione d’animo che permette di superare la paura: molto spesso è la paura di soffrire o di rivivere un trauma, che guida il pensiero e il vissuto nella formazione di una rete strategica di controllo, finalizzata al tentativo di “tenere fuori” le possibili cause di disagio o sofferenza. Questo meccanismo di difesa comporta un forte dispendio di energie ed un isolamento rispetto al sé e alla vita. Se il compito del controllo è quello di “tenere fuori”, la fiducia “porta dentro”. Un atteggiamento fiducioso nei confronti di sé, degli altri e della vita promuove un attitudine trasformativa per cui, anche la sofferenza più temuta o la difficoltà più evitata, può essere accolta, elaborata e superata in un movimento virtuoso in cui il motore è la possibilità e non l’evitamento.

La fiducia si impara?
La fiducia è una scelta. Diversi sono gli eventi traumatici che , nel corso della vita, possono portare ad un atteggiamento sfiduciato e insoddisfatto nei confronti del vivere: esperienze infantili traumatiche, diverse modalità di apprendimento, difficoltà relazionali etc.., ma ognuna di esse, per quanto possa influire, non è una condanna. Scegliere di fidarsi inizia con l’andare oltre, abbandonare la convinzione che il passato sia un eterno presente e donarsi alla vita. Nel passaggio da una posizione all’altra è fondamentale operare una decisione di perdono, come cessazione di un sentimento di risentimento, che si manifesta attraverso la rabbia, per non aver ottenuto ciò che ci si aspettava o ancora direzionata verso la persona che si credeva dovesse rispondere a determinati bisogni o aspettative. Confrontarsi con questi vissuti permette di assumersi la propria parte di responsabilità verso l’espressione del proprio Sè e lasciare andare, attraverso un atto di perdono di sè e degli altri, il senso di colpevolezza e di ingiustizia che si sono sperimentati.
Il perdono libera poichè restituisce a sè e all’altro la possibilità di provare ancora fiducia, cessando di credere di dover vivere in un continuo stato di allerta.
Le decisioni di cambiamento sono frutto di un costante allenamento, in cui ogni giorno è una nuova conferma di cio che si è scelto. Costruire un nuovo atteggiamento è un progetto e in quanto tale può subire degli stop o rallentamenti, ma ognuno di questi momenti sarà occasione per riconfermare le proprie scelte, senza giudizio. Sviluppare un senso di fiducia, rispetto alle proprie risorse interne, costruito anche sulla consapevolezza che nel mantenimento di un buon equilibrio sono previste delle cadute, significa mettere i mattoncini nella creazione di quel ponte che porta verso l’altro; in coppia, in famiglia, con il gruppo di amici o di lavoro e in comunità.
La fiducia è il cardine fondamentale di ogni professione d’aiuto, dove “aiuto” non pone l’altro in una condizione di debolezza, ma di fragilità, ed è li che va incontrato, dove ha bisogno di imparare o ricominciare a sentire che “ce la può fare”.
Ogni professione di aiuto è una relazione di fiducia, ma una relazione fiduciosa, soprattutto verso se stessi, può essere di grande aiuto.

A cura di dott.ssa Claudia Russo
Psicologa e Psicoterapeuta

A cura di Dott.ssa Claudia Russo
Psicologa Psicoterapeuta

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Quando i muri diventano porte: trasformare le avversità in crescita creativa

“Per ognuno di noi esiste un sentiero per uscire dal bosco nero dei nostri antichi dolori. Ci vuole forza, fiducia ed arte: bisogna provare senza mai perdere la speranza, altrimenti perderemmo veramente noi stessi. Non è facile, ma si può fare.” (G. Ciappina)

Le esperienze dolorose e traumatiche possono sembrare dei muri invalicabili…ma possono diventare le porte che conducono ad una vita migliore e più creativa.
Non vi è alcun dubbio che il trauma possa essere immensamente doloroso, lasciando spesso profonde cicatrici emotive e psicologiche molto tempo dopo che l’esperienza stressante sia passata.
Ma possono esserci dei risvolti positivi
Tedeschi e Calhoun hanno individuato questi risvolti positivi in un processo di profonda trasformazione: la Crescita Post-traumatica.
Per Crescita Post-traumatica (PTG – Posttraumatic Growth) si intende un “cambiamento psicologico positivo come risultato di una lotta contro circostanze di vita altamente impegnative e sfidanti”. (Calhoun, L.G., Tedeschi, R.G., 2004)
I due autori hanno osservato alcune persone vittime di traumi, le loro reazioni e il loro stato psicologico in seguito agli eventi vissuti.
Analizzando i dati emersi, hanno maturato delle nuove considerazioni relative ad un’inaspettata tendenza di alcune di queste persone, che non solo hanno mostrato di resistere alle circostanze, ma che avevano anche intrapreso un cambiamento positivo.
Il processo di crescita non è una diretta conseguenza del trauma, ma è una lotta individuale nel fare i conti con la nuova realtà imposta dall’evento traumatico, che è cruciale nel determinare la possibilità di crescita post-traumatica.
L’evento traumatico, come un terremoto, sconvolge e modifica le strutture schematiche che guidano i processi di apprendimento e le capacità di prendere decisioni. La crisi delle componenti psicologiche fondamentali porta ad una perdita del significato dell’esistenza. E’ quindi necessario, come avviene dopo i terremoti, compiere una ricostruzione (elaborazione cognitiva), che permetterà all’individuo di ricreare strutture nuove e più resistenti, di ricostruire se stesso in maniera più fedele ed autentico.
L’uomo non ama il dolore. Di per sé il dolore semplicemente fa parte del nostro mondo, della nostra esistenza e tutti gli sforzi per eliminarlo sembrano inutili o dannosi. Anestetizzare certi tipi di dolore porta ad una abolizione della nostra coscienza, mettendo in serio pericolo l’economia della nostra vita affettiva.
Particolare caratteristica del dolore è la sua “solubilità”. Nella solubilità del dolore è racchiusa la capacità dell’uomo di “assimilare” lo stimolo, interno o esterno, che potrà così essere contenuto e reso tollerabile, anche se nella sofferenza. Un processo che Bion chiama “trasformazione”.
E cosa può aiutarci a trasformare il dolore
La bellezza
Quella bellezza che si crea grazie alla creatività che vive in ognuno di noi, che si sprigiona dalla nostra scelta di essere “artisti” nei nostri progetti di vita.
Potrebbe essere la via più sicura per seguire i percorsi del dolore nella sua trasformazione, perché non c’è capolavoro nella vita della persona che non nasca dalla costante ricerca di ricomporre l’infranto, dentro e al di fuori di essa.
I ricercatori hanno affermato che l’espressione creativa offre benefici terapeutici poiché aumenta l’impegno e il flusso, la catarsi, la distrazione, le emozioni positive e il meaning-making.
Da diversi studi è emersa una correlazione tra le esperienze di vita avverse e la creatività, infatti l’aumento della creatività può costituire una manifestazione di crescita post-traumatica, la quale si è riscontrata impattare positivamente diverse dimensioni della vita dell’individuo quali la relazione con gli altri, la percezione di nuove possibilità, una più profonda spiritualità ed un maggiore apprezzamento verso la vita. Ma affinché la trasformazione dell’esperienza traumatica avvenga è necessaria un’elaborazione profonda del dolore e proprio grazie alla creatività si apre un canale fondamentale per la trasformazione del dolore stesso.
Non a caso le vite e le opere di molti artisti che hanno avuto delle esperienze profondamente dolorose, come ad esempio Michelangelo, Frida Kahlo e Munch, sono state oggetto di grandi studi.
Questi artisti nel loro essere creativi e resilienti sono metafora di quel potenziale umano nel trasformare l’esperienza traumatica, quel muro che sembra invalicabile, in una porta verso una possibile crescita. La loro esperienza è quindi esempio della creatività che c’è in ognuno di noi, di quella grande risorsa insita nell’uomo, che gli dona la spinta ad imparare a creare bellezza e a non essere necessariamente il più grande pittore, scultore o musicista, ma piuttosto il più grande artista della sua stessa vita.
A cura di Dott.ssa Sara Lippo Psicologa Specializzanda in Psicoterapia
Immagine: olio su tela a cura di Sara Lippo

A cura di Dott.ssa Claudia Russo
Psicologa Psicoterapeuta